FORMEZ
Scheda organizzazioneCodice meccanografico: 9876543210
Preside: Mark docente Sacco
Sito web: -
Codice meccanografico: 9876543210
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Percorso didattico narrativo orientato a fornire argomenti di ricerca, studio, analisi. Camminare lungo e attraverso il “confine”, inteso in senso geografico ma anche come astrazione culturale, è un’occasione per indagare momenti storici, concetti e ideologie che hanno definito l'identità e l’hanno sottoposta al confronto/scontro, al dialogo e alla mescolanza, ridisegnando i termini dei limiti individuali e collettivi. L’indagine nelle collezioni della Biblioteca Digitale Lombarda offre spunti e approfondimenti preziosi sulla storia delle Guerre d’indipendenza restituendo attualità e colore al racconto storico-politico, ma al tempo stesso permette di ampliare la ricerca ai campi della letteratura, della musica, della filosofia; i fondi dell’Archivio di Etnografia e Storia Sociale illustrano con tutta la vividezza dell’immagine fotografica le condizioni concrete di chi, lungo il confine, vive e lavora.
Il confine pone limite alla nostra esperienza, ma è esso stesso soglia verso l’alterità e un mondo diverso dal nostro; camminare lungo e attraverso il confine diviene così un’occasione per indagare momenti storici e concetti astratti che hanno definito la nostra identità - nazionale, locale, culturale, personale – e l’hanno sottoposta al confronto/scontro, al dialogo, alla mescolanza con portati diversi ridisegnando i termini dei nostri limiti.
Le guerre d’indipendenza Italiana (1848-1866) rappresentarono il momento culminante e più tempestoso del nostro Risorgimento; al di là dei numerosi aspetti e delle valutazioni di questo periodo storico, seguire il movimento dei confini tra il Regno sabaudo e l’Impero Austro-ungarico scandito dagli eventi bellici offre la possibilità di ripercorrere le tracce di un processo più ampio di affrancamento dalla dominazione straniera e di unificazione della nazione animato da ideali di libertà, laicità, di rivendicazione di diritti civili e politici.
Dopo le insurrezioni antiasburgiche della primavera del 1848 di Padova, Milano e Venezia gli austriaci si ritirarono nel “quadrilatero” difensivo assicurato dalle quattro fortezze (Peschiera, Verona, Mantova e Legnago) riuscendo a mantenere aperti i collegamenti con l’Impero solo attraverso un corridoio lungo la costa orientale del Lago di Garda. La prima fase della guerra fu favorevole alla coalizione di stati guidata da Carlo Alberto di Savoia, ma le sorti si capovolsero quando molti degli alleati abbandonarono l’impresa lasciando il Regno di Sardegna solo con le proprie truppe e con i pur tanti volontari accorsi per sostenere la guerra di indipendenza dall’Austria.
La storia delle cinque giornate di Milano (18 e il 22 marzo 1848) e della resistenza di Milano agli austriaci si può ripercorrere minuziosamente tra le pagine del giornale “22 marzo” che fu pubblicato quotidianamente dal 25 marzo 1848 al 3 agosto 1848, alcuni giorni prima della capitolazione dei patrioti. Il giornale fu l’organo ufficiale del Governo provvisorio, e tra le sue pagine si può ricostruire l’animata vita politica di Milano e della Lombardia di quei mesi e la storia del contrasto politico, via via crescente, tra coloro che erano favorevoli ad un’annessione al Piemonte e quanti invece, animati da idee repubblicane, non si riconoscevano nelle posizioni filo sabaude.
L’eroica difesa di Brescia, insorta mentre l’esercito piemontese veniva sconfitto a Novara, valse alla città il titolo di Leonessa d’Italia e la medaglia di “benemerita del Risorgimento”; nelle dieci drammatiche giornate -dal 23 marzo al 1 aprile del 1849- la cittadinanza tenne testa alle truppe austriache e ad incessante bombardamento fino all’ultima difesa di Porta Torrelunga e al dilagare degli assedianti nella città.
Tra i fondi delle biblioteche della Rete bibliotecaria di Brescia è conservato un volume: Le dieci giornate di Brescia : raccontate ai ragazzi da un tamburino / Eugenio Paroli. Questo racconto per ragazzi, immaginato per bocca di un tamburino, uno di quei fanciulli che accompagnavano le truppe in battaglia scandendo con il loro strumento il ritmo e gli ordini sul campo di battaglia, descrive le eroiche dieci giornate di Brescia.
Inoltre nella Biblioteca del Conservatorio di musica Luca è conservato lo spartito di un inno dedicato "Alla santa memoria dei Martiri Bresciani, caduti nelle dieci giornate del 1849". La cosiddetta musica patriottica ha accompagnato come colonna sonora la storia del nostro Risorgimento; oltre ai sentimenti di patria, agli atti eroici, ai temi dei diritti politici, della laicità e della libertà di pensiero ha saputo però dare voce anche a sentimenti di dolore, amore e speranza di coloro che hanno vissuto una stagione tempestosa della nostra storia; oltre al cantare i grandi miti e l’agiografia ufficiale (ben rappresentata dall’inno di Vincenzo Mela per i martiri di Brescia) c’è un più umile filone di canzoni popolari che cantano la nostalgia degli innamorati separati, delle famiglie lontane, e lo strazio della guerra. Sono numerose le composizioni del maestro Vincenzo Mela (ca. 1823-1897) incentrate sul tema patriottico; si tratta per lo più di opere per canto e pianoforte.
L’insurrezione di Venezia e di Milano avevano segnato l’inizio della I Guerra d’indipendenza e l’atto finale della guerra fu la resa della città lagunare, il 22 agosto del 1849, dopo un lungo assedio che lasciò Venezia prostrata. La caduta della città, vinta dal colera e dall’incessante bombardamento dell’artiglieria e dei palloni aerostatici armati dagli austriaci con bombe incendiarie, suscitò un’enorme reazione tra le fila dei patrioti: la Repubblica era risorta ed era stata dilaniata nel giro di poco più di un anno e con lei le speranze di tanti che avevano confidato di strapparla al dominio austriaco. La resistenza di Venezia fu davvero eroica, nel giugno del 1849 i veneziani riuscirono addirittura a difendere la fortezza di Brondolo (a difesa della parte meridionale della Laguna all’altezza della foce del Brenta). Un documento manoscritto coevo mostra le fortificazioni che nel 1849 sulla linea del Brenta rappresentarono l’ultimo baluardo della difesa dei veneziani assediati.
La musica coeva registrò le emozioni che l’assedio e la resa di Venezia aveva suscitato e ci sono state lasciati tanti testi e partiture che ci richiamano a quegli eventi, celebre tra tutte O Venezia che sei la più bella entrata nei repertori dei più illustri interpreti di musica popolare.La Caduta di Venezia muove dalle parole del poeta e patriota Arnaldo Fusinato (Schio, 25 novembre 1817 – Roma, 28 dicembre 1888). Nella sua poesia, e nel testo della composizione qui presentata troviamo un verso ripetuto al termine di alcune strofe che un celebre musicista ha citato e reinterpretato nel 1981: “ ― Il morbo infuria... / Il pan ci manca... / Sul ponte sventola / Bandiera bianca!”.
Cavour aveva abilmente intessuto relazioni diplomatiche con l’imperatore di Francia Napoleone III per indurlo a sostenere le ragioni dell’Italia in caso di aggressione da parte dell’Impero austriaco; l’invio di un ultimatum da parte dell’Austria il 23 aprile del 1859 fece scendere in campo, alleati, italiani e francesi che sconfissero gli austriaci nelle battaglie di Magenta, Solferino e San Martino. Il costo umano di queste battaglie indusse però l’imperatore a desistere dal progetto di conquistare Vienna e a firmare frettolosamente, l’11 luglio del 1859, l’armistizio di Villafranca. L’Italia rimaneva monca del Veneto; una frontiera tra nazioni tagliava in due la provincia di Mantova.
La Battaglia di Solferino si combatté per più di 12 ore il 24 giugno 1859; sul campo rimasero quasi 30.000 uomini. Assistette alla battaglia Henry Dunant, uomo d’affari di origini svizzere al seguito di Napoleone III, che rimase profondamente segnato dalla vista della carneficina, dei tanti feriti, accatastati nelle chiese, assistiti da pochissimi medici ed infermieri con strumentazioni e bendaggi insufficienti; cercò allora di prodigarsi in prima persona per migliorare l’organizzazione dei soccorsi. Il suo ricordo e le sue notazioni su quei giorni furono fissati nel suo Un souvenir de Solferino, pubblicato nel 1862, e quest’opera sollecitò la nascita del Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) nel 1863.
Il volume celebrativo del centenario da quella sanguinosa battaglia ripercorre la storia di quei giorni e la nascita della Croce rossa con documenti inediti.
Per sei anni, dal 1860 al 1866, il confine stabilito dopo la seconda guerra di indipendenza tra Regno di Sardegna e Impero Austroungarico fu uno dei luoghi strategicamente più “caldi” della frontiera dello Stato unitario appena creato. Il confine lombardo del regno sabaudo (poi d’Italia) attraversava il Lago di Garda e seguiva il corso del Mincio fino alla curva di Curtatone da cui poi puntava ad intersecare ad angolo retto il Po; a meridione di questo il mantovano veniva diviso nella zona annessa ai domini sabaudi ad occidente (e fu compreso nelle province di Brescia e Cremona), e nell’oltre Po’ mantovano rimasto sotto il dominio austriaco. All’indomani della ratifica del trattato di Zurigo del 1859 sul nuovo confine dello Stato gli austriaci si diedero ad una campagna di fortificazione di tutta la zona adiacente al confine. Questa carta topografica stampata a Torino nel 1866, incentrata sulle zone di conflitto tra l’Impero Austriaco e lo Stato sabaudo, mostra l’importanza strategica di quest’area.
Il primo conflitto del neonato Regno d’Italia si conclude con l’annessione del Veneto e di parte del Friuli grazie soprattutto all’alleanza con la Prussia. La guerra sul fronte italiano fu segnata infatti da sanguinose sconfitte. In particolare sul campo di Custoza dall’alba del 24 giugno 1866 si combatté una battaglia ferocissima tra l’esercito italiano, divenuto nominalmente tale dal 1861 e che includeva le forze sabaude, degli ex stati borbonici, dei garibaldini e di tutti i volontari convenuti per dare man forte alla causa unitaria, e le truppe austriache. La strategia ideata dal generale La Marmora avrebbe dovuto prevedere la divisione dello schieramento italiano in due zone: mentre una avrebbe dovuto procedere ad un’invasione del Veneto dal Mincio, l’altra si sarebbe dovuta muovere da sud. Le operazioni non si raccordarono e così l’esercito italiano, ben più numeroso di quello austriaco, finì per essere colto frammentato e sparpagliato sul campo di battaglia. Si trattò di una disfatta di tale portata da ledere profondamente, nonostante la felice conclusione del conflitto dovuta ai successi della Prussia e alla diplomazia francese, la fiducia degli italiani nei confronti del governo.
Della battaglia, dell’atmosfera della sconfitta, dell’eroismo dei combattenti (“A Custoza l'ostinazione degl'Italiani fu epica. Sul colle, sul cucuzzolo anzi del Belvedere, s'era concentrata una tale violenza di tenacità, che chi c'era voleva starci e chi non c'era voleva andarci ad ogni costo. [...] Fu mandata alla carica persino una scorta di carabinieri”; p. 15) della costruzione dell’Ossario, che accoglie le spoglie dei caduti di entrambi gli schieramenti delle battaglie che si combatterono a Custoza nel 1848 e nel 1866 ci parla un particolare tipo di racconto di viaggio. Sono le memorie di Camillo Boito (Roma, 30 ottobre 1836 – Milano, 28 giugno 1914), architetto e critico d’arte noto per aver affrontato la questione dello “stile nazionale” identitario della nostra produzione artistica e architettonica e per una predilezione per la coerenza nelle scelte artistico-storico-architettoniche che fece di lui uno dei primi ideatori della teoria del recupero filologico nel restauro, intesa come attività svolta a mantenere e conservare la fisionomia originale della creazione artistica nel rispetto del monumento. Nelle Gite di un artista, le sue considerazioni artistiche ed esperienze di viaggio sono inserite in uno stile scorrevole che, per quanto riguarda la narrazione de fatti di Custoza, combina la crudezza della documentazione (“[Dal] giornale dei disseppellitori: Comune di Sommacampagna. Si esumano 77 scheletri del 1848 e 801 del 1866. Oggetti trovati: due orologi, due bottoni da polsini, una riVoltella, due borse in seta, un suggello con le iniziali M.F., un suggello con le iniziali N. A., sei pezzi da venti lire in oro, dei da dieci, tre da un fiorino, due svanziche, trecentosei monete di rame austriache, settantadue italiane, medaglie, Cristi e corone, venti anelli, uno con le iniziali M. D., [...]”; p. 20) ai toni più lirici; questo l’incipit della raccolta: “L'OSSARIO: Il sole pareva la luna. Era piccolo e tondo, e si poteva guardarlo in faccia con gli occhi spalancati. Aveva, come si dice della luna, i raggi d'argento. Il suo lembo inferiore toccava la linea quasi retta dei colli; e l'intiero disco sembrava bagnato in una atmosfera trasparente, ma vaporosa, la quale, invadendo tutto il campo del cielo, dava al sereno candore innocente, dolcissimo. Non si vedeva una nuvola volare per l'aria; non c'era un colore in quel tramonto biancastro. Solo, quando la strada, sulla quale correvo in carrozzella, piegava a un tratto, e innanzi al cerchio mezzo nascosto dal sole passavano in un attimo i rametti fitti, nodosi, nudi di un olivo morto, quel sole scialbo prendeva nelle rifrazioni della luce un colore strano rossigno, come di fiamma pallida o di sangue annacquato” p.3)
Fin dal Medioevo si è dibattuto sui limiti tra l’esplorazione scientifica e le parole della fede: come sarebbe stato possibile conciliare l’ipotesi dell’eternità del mondo con la Creazione biblica? L’anima ha un’origine materiale? … Alcuni tra i più grandi teologi scolastici tentarono la via della semplice constatazione del disaccordo tra la teoria aristotelica e i dogmi religiosi senza spingersi oltre; fu nel pieno Rinascimento che filosofi e uomini di scienza cercarono di teorizzare l’esistenza di due livelli di conoscenza per cui potevano valere e coesistere verità inconciliabili (la verità della filosofia e quella della religione): secondo la loro posizione sarebbe stato eretico sostenere la verità fattuale di teorie discordanti con la religione, non l’ipotizzarlo in forma puramente teorica. Le due verità dunque non si sarebbero contraddette perché si svolgevano su due piani distinti: quello scientifico e quello religioso; questa risposta permise agli scienziati dell’epoca di esplorare i confini della filosofia naturale senza mettere in discussione il credo cristiano. Nel corso dei secoli molti scienziati, filosofi, teologi affrontarono la questione in termini sostanzialmente simili affermando che la religione e la scienza si rivolgono ad ambiti diversi; forme di conoscenza e aspetti della vita non sovrapponibili, ma la storia di questo confronto, fu ed è tuttora, segnata anche da momenti di acceso conflitto.
Pietro d'Abano (1250 -1316) fu il primo tra gli esponenti del cosiddetto Aristotelismo padovano; fu medico, astronomo e astrologo, filosofo; docente alle università di Parigi e Padova; conosceva l’arabo e il greco e poté accedere alla ricchezza dei testi scientifici antichi e coevi trasmessi in quelle lingue (Aristotele, Galeno, Averroè, Avicenna, Ippocrate Aristotele, Dioscoride, Alfarabi…). Denunciato per eresia due volte fu assolto anche grazie all’intervento del papa; secondo quanto afferma lui stesso nel Conciliator all’origine di almeno una di queste denunce ci sarebbe stata l’accusa di aver sostenuto l’origine materiale dell’anima. Fu autore e traduttore di numerose opere filosofiche, astrologiche, mediche e farmacologiche. A queste ultime appartiene questo manoscritto di fine Quattrocento con iniziali ornate e filigranate conservato a Brescia.
Il modernismo è stata una corrente interna al pensiero cattolico intesa a proporre una rilettura del messaggio cristiano in una maggiore sintonia con l'evoluzione sociale e scientifica della società moderna della fine dell’Ottocento e dei primi decenni del secolo successivo. Si è trattato del momento di crisi maggiore, in epoca moderna, all’interno del cristianesimo sui temi del confronto tra modernità, razionalismo e fede: questo movimento fu riconosciuto come eresia da Pio X nell'enciclica Pascendi Dominici gregis (1907) le cui prime parole introduttive già sfiorano il tema del confine tra scienza e religione “L'officio divinamente commessoCi di pascere il gregge del Signore ha, fra i primi doveri imposti da Cristo, quello di custodire con ogni vigilanza il deposito della fede trasmessa ai santi, ripudiando le profane novità di parole e le opposizioni di una scienza di falso nome” e, continuando nella lettura, i modernisti vengono designati come coloro per cui “è fisso e determinato che la scienza e la storia debbano esser atee; entro l'àmbito di esse non vi è luogo se non per fenomeni, sbanditone in tutto Iddio e quanto sa di divino […] La scienza e la storia, essi dicono, sono chiuse come fra due termini: l'uno esterno, ed è il mondo visibile; l'altro interno, ed è la coscienza.” Costoro erano per lo più sacerdoti che volevano promuovere un rinnovamento che fosse interno al cattolicesimo e molti di loro, come Ernesto Buonaiuti (Roma 1881 - ivi 1946) sebbene scomunicati o sospesi a divinis non smisero mai di professarsi credenti e cattolici. Questo documento, scritto in risposta all’enciclica papale, esprime in toni moderati le posizione dei modernisti in campo biblico, teologico e filosofico.
Albert Einstein (Ulma 14 marzo 1879 – Princeton 18 aprile 1955) affrontò a più riprese il tema dei confini tra la ricerca scientifica e le questioni morali e talvolta anche propriamente religiose; nel saggio Religione e scienza (contenuto nella raccolta Come io vedo il mondo, Mein Weltbild, pubblicato per la prima volta nel 1934) Einstein offre un’interpretazione positivista della religione come frutto della paura e dell’incomprensione degli uomini per l’enormità del cosmo che li comprende; lo scienziato al tempo stesso però mostra di apprezzare il ruolo morale e sociale della religione che nel corso del tempo avrebbe, anche grazie al contributo della scienza, emancipato progressivamente gli uomini dalla superstizione. “L'impressione del misterioso, sia pure mista a timore, ha suscitato, tra l'altro, la religione. Sapere che esiste qualcosa di impenetrabile, conoscere le manifestazioni dell'intelletto più profondo e della bellezza più luminosa, che sono accessibili alla nostra ragione solo nelle forme più primitive, questa conoscenza e questo sentimento, ecco la vera devozione; in questo senso, e soltanto in questo senso, io sono fra gli uomini più profondamente religiosi” (p. 40). In questa frase e altrove, nel saggio citato, Einstein esprime l’idea di una religione “cosmica” che affratellerebbe tutti gli uomini che si accostano alla natura con spirito contemplativo e che è un tutt’uno con l’impulso alla ricerca scientifica: “Non è senza ragione che un autore contemporaneo ha detto che nella nostra epoca, votata in generale al materialismo, gli scienziati sono i soli uomini profondamente religiosi”.
Guido Morselli è stato uno scrittore, letterato e saggista italiano eclettico e ben lontano dall’adesione a modelli formali o di pensiero. Giuseppe Pontiggia, curatore tra l’altro del prezioso Diario di Morselli (Milano, Adelphi, 1988), sostenne che le difficoltà e le resistenze incontrate in vita per la pubblicazione dei suoi romanzi, e la sua fama solo postuma erano state dovute al suo essersi discostato dalla “linea tradizionale” del romanzo italiano. Egli aveva scritto romanzi bellissimi animati da una fantasia sbrigliata, in alcuni di questi aveva reinventato una storia alternativa in cui, in Contro-passato prossimo (1975), la prima guerra mondiale veniva vinta dalla Germania, l'Impero austro-ungarico, l'Impero ottomano e dalla Bulgaria e in Roma senza papa (1974), il pontefice abbandonava il Vaticano per ritirarsi in una villetta a Zagarolo. La sua era una scrittura che abbracciava contaminazioni tra stile e generi del romanzo e mal tollerava per questo la corrente di pensiero di critica letteraria che negli anni Sessanta, interrogandosi sul “romanzo” si sforzava di definire una precettistica del genere; per Morselli piuttosto il termine avrebbe dovuto essere inteso come «una federazione di generi letterari» e accusava le avanguardie di voler sostituire alle regole della critica più conservatrice nuove regole, nuovi limiti, nuovi “confini” per il romanzo, quando invece, e la sua stessa scrittura ne è testimone, Morselli ne avrebbe voluto salvaguardare tutta la libertà e la complessità (cfr. su questo Dal «Diario» di Guido Morselli: sui confini della forma-romanzo / Nicola Turi, in Memorie, autobiografie e diari nella letteratura italiana dell’Otto e del Novecento, 2008; fonte)
Gli appunti personali di Guido Morselli, le riflessioni raccolte nel suo Diario pubblicato nel 1988 testimoniano quella stessa ricchezza di interessi (dalla filosofia alla psicoanalisi, dalla religione alla scienza, dallo sport all’economia) che si può ripercorre sfogliando il catalogo della grande biblioteca costituita e appartenuta a Morselli oggi conservata e valorizzata in un fondo dedicato all’interno della Biblioteca Civica di Varese (circa 1500 volumi) e digitalizzata privilegiando i documenti su cui lo scrittore ha appuntato di suo pugno fitte annotazioni.
Fondo Guido Morselli : https://www.bdl.servizirl.it/vufind/Record/BDL-COLLEZIONE-561
In montagna il confine naturale consiste nella “linea spartiacque”, ovvero la linea segnata dalla cresta di un sistema montuoso che separa verso due versanti opposti le acque di fiumi e torrenti. Si tratta di una linea immaginaria che attraversa zone impervie e spesso irraggiungibili e caratterizzate da fenomeni drammatici di frane e valanghe e che solo recentemente si è riusciti a mappare con accuratezza grazie a sistemi sofisticati di rilevamento; fino alla metà del secolo scorso i punti fissi rilevati attraverso cui passava la demarcazione del confine erano invece molto distanti tra loro.
La linea di confine tracciata sulle creste delle montagne in alcune specifiche circostanze, se attraversa ghiacciai e nevai ad esempio o se interessata a fenomeni di frane, è mutevole e si adatta ai cambiamenti morfologici. Il riscaldamento globale, con il conseguente scioglimento dei ghiacciai, sta modificando i confini alpini ad un ritmo fortemente accelerato in questi ultimi anni. Nel caso del ghiacciaio Grafferner ad esempio si stima che nell’ultimo secolo si sia perso il 70 per cento della superficie ghiacciata. Nel 2008 la legislazione italiana ha dovuto includere la definizione di “confini mobili” in un trattato sottoscritto da Svizzera e Italia. La frontiera tra queste nazioni percorre per ben il 40 per cento aree un tempo completamente coperte da ghiacciai e, inizialmente definita nel 1861, era stata oggetto degli ultimi rilievi negli anni Venti e Trenta del Novecento e oggetto dell’ultima Convenzione tra le due nazioni nel 1941. La commissione italo-svizzera chiamata alla verifica del tracciato dei confini ha constatato che sul Plateau Rosa del Cervino, sul Monte Rosa e sul Pizzo Bernina la superficie ghiacciata si è significativamente ridotta; si è trattato per lo più di variazioni che talvolta sono state favorevoli ad una nazione talvolta all’altra e non hanno destato particolari contestazioni; diversamente ha innescato una certa tensione lo scioglimento del ghiacciaio Teodulo al confine tra Valle d’Aosta e il Cantone Vallese relativamente all’attribuzione delle località circostanti le piste sciistiche di Zermatt in cui il confine è scivolato di oltre 100 metri in favore della Svizzera (cfr. Fonte ).Il progetto Italian Limes (http://www.italianlimes.net/) sta monitorando lo spostamento del ghiacciaio di Similaun lungo il confine tra Italia e Austria; il sito internet del progetto permette di seguire in tempo reale la modificazione del tracciato della linea ideale di demarcazione della frontiera e permette dunque di restituire un'immagine tangibile degli effetti del cambiamento climatico.
Una carta documenta il profilo altimetrico del sistema montuoso alpino lungo il confine degli stati italiani alla data del 1845.
La carta, databile alla fine dell’Ottocento o ai primi anni del secolo successivo, mostra l’estensione dei ghiacciai intorno al Pizzo Bernina; la riduzione della superficie ghiacciata si può facilmente rilevare dal confronto con una semplice immagine satellitare attuale.
"Le valanghe arrivano là dove sono sempre arrivate; ma anche là dove non sono mai giunte." Il detto popolare, citato in questa approfondita ricerca documentata dall’Inventario del Patrimonio immateriale delle regioni alpine, può essere preso ad epigrafe di uno studio che avesse per oggetto le conseguenze del global warming anche sulla crescente incidenza di drammatici fenomeni come le valaghe. Il primavera le temperature raggiungono medie molto più alte decennio dopo decennio e favoriscono l’innesco di valanghe sui versanti più innevati, ma al tempo stesso il cambiamento climatico sembra favorire eventi estremi nelle precipitazioni: due circostanze che aumentano radicalmente il rischio di valanghe. Questa ricerca mostra nel corso dei secoli le strategie adottate e le conoscenze di montanari e professionisti per fronteggiare questo rischio nell’area svizzera del Canton Vallese, interessata ad un estensivo fenomeno di scioglimento dei ghiacciai.
L’Impero Austro-Ungarico aveva affidato nel 1850 ad una Commissione il compito di tutelare i beni artistici del Trentino; questa Commissione non aveva veri e propri mezzi o poteri per esercitare un ruolo operativo, ma piuttosto di consulenza e soprattutto svolgeva un ruolo “diplomatico” dal momento che l’istituzione della Central Commission zur Erforschung und Erhaltung der Baudenkmale era stata una “concessione” a tutela della cultura dei diversi popoli che componevano l’Impero da parte del governo centrale austriaco. L’annessione del Trentino all’Italia dopo la Prima Guerra mondiale attribuì al Regno d’Italia la tutela su quel patrimonio artistico; il Ministero dell’istruzione inviò sul campo Giuseppe Gerola (1877-1938) come direttore di quello che all’epoca fu denominato Ufficio di Antichità e Belle Arti di Trento ed in seguito Soprintendenza. Gerola, nato da una famiglia di origini Roveretane, era un insigne storico e aveva già dimostrato uno spiccato interesse per la tutela del patrimonio trentino dichiarando l’importanza di un censimento delle opere d’arte e dei monumenti di questa regione e della restituzione delle opere requisite dall’Austria (cfr. http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/7272/849074%E2%80%931192025.pdf?sequence=2) Questo documento rappresenta il frutto del lavoro dei funzionari inviati in Trentino dal Ministero nel 1918 per censire il patrimonio artistico riconquistato all’Italia.
La Chiesa di San Nicolò a Media (frazione di Pozza, nella Val di Fassa), descritta a p. 34 dell’Elenco degli edifici monumentali e degli oggetti d'arte del Trentino citato sopra, come: “gotica, con affreschi” e qui ritratta da un anonimo fotografo. Cartolina conservata nel Fondo Eugenio Lechi (AESS)
L’Arco alpino ha da sempre rappresentato una difesa, un confine e offerto al tempo stesso valichi e passaggi per gli scambi tra i popoli; nel corso dell’Ottocento si concretizzarono due enormi imprese quali il traforo ferroviario del Frejus (1857-1871) progettato quando la Savoia era ancora parte del Regno sabaudo e completato in tredici anni rispetto ai venticinque previsti inizialmente e il progetto del tunnel ferroviario tra Briga e Domodossola, traforo del Sempione. I lavori per il Traforo del Sempione, progettato dall’ingegnere svizzero Julius Dumur, iniziarono nel 1898 con lo scavo di una canna principale e di una di servizio, e furono conclusi nel 1905 con l’inaugurazione nel 1906 della tratta ferroviaria (che, con i suo quasi venti chilometri, per oltre settant’anni fu la più lunga tratta ferroviaria in galleria del mondo).
Nella primavera del 1906 si apriva la grande Esposizione internazionale di Milano, proprio per celebrare il traforo del Sempione che, a mezzo secolo dall’Unità d’Italia, congiungeva il nostro paese all’Europa. L’Esposizione si sviluppò su una superficie di circa un milione di metri quadri e se inizialmente era stata dedicata al solo tema dei mezzi di trasporto e comunicazione che favoriscono gli scambi tra i popoli, finì per rappresentare una dimostrazione dei più alti livelli raggiunti dall’industria ed ingegneria dello stato italiano. L’editore Treves, di Milano, dedicò una rassegna in uscite settimanale alla descrizione dei lavori preparatori, all’allestimento e alla riuscita dell’Esposizione facendo un grandissimo ricorso alla fotografia, ormai perfezionata nei processi meccanici come mezzo di documentazione e illustrazione della carta stampata. “Si tratta di una vera e propria rivoluzione che, nell’emancipare la produzione delle illustrazioni destinate alla carta stampata dal monopolio di disegnatori e incisori, permette la realizzazione di repertori iconografici sempre più corposi ed esaustivi. A proposito di queste illustrazioni, affermatesi in campo editoriale soprattutto dall’ultimo quarto del XIX secolo, Paola Pallottino ha parlato di “fotografia illustrativa” (Magistrelli, G. “L’Esposizione Internazionale Del Sempione Del 1906: Fotografia, Pubblicistica Illustrata E Propaganda Della Modernità”. Rivista Di Studi Di Fotografia. Journal of Studies in Photography, Vol. 1, no. 2, Feb. 2016, pp. 32-49)
L’inno dedicato alla conclusione del traforo del Sempione, incentrato sull’immagine del gigante-montagna sconfitto dall’audacia e dall’intelligenza dell’uomo, fu cantato dagli alunni delle Scuole comunali nel Salone dei Festeggiamenti all’Esposizione internazionale di Milano il 25 giugno 1906.
La fotografia immortala un momento di svago tra alcuni operai impiegati negli scavi del traforo del Frejus. Questi lavoratori erano stati scelti tra i minatori di Pezzaze, comune della Val Trompia, celebre per l’attività estrattiva del suo circondario. Dalle province lombarde di Bergamo e Brescia vi fu, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, una forte emigrazione alla ricerca di lavoro nei trafori delle gallerie alpine; in quelle provincie infatti la manodopera dei minatori era fin troppo abbondante e si trattava di persone di grande esperienza e competenza rispetto ai lavori di scavo previsti, assai ricercate nei cantieri dei trafori. Le condizioni di lavoro che incontrarono erano però, se possibile, ancora più dure di quelle delle miniere dove si lavorava stagionalmente o comunque con turni meno estenuanti di quelli dettati dalle tempistiche di un cantiere; i minatori, che lavoravano anche in condizioni igienico-sanitarie critiche, dovevano affrontare oltre i rischi di scoppi e rovine del terreno anche l’attacco di parassiti e malattie. Fra i circa 4000 operai del Frejus si contarono 48 vittime, di cui 18 a causa del colera.
Per “frontalierato” si intende il fenomeno di pendolarismo lavorativo lungo il confine tra due nazioni limitrofe; rispetto al lavoratore migrante, il frontaliere mantiene la residenza e l’abitazione nel paese di provenienza mentre la sua occupazione si svolge in un paese diverso. La regolamentazione fiscale e nei diritti sociali di questi lavoratori è oggetto di complesse convenzioni bilaterali tra i paesi confinanti e la stessa Unione Europea ha cercato di sbrogliare la matassa della regolamentazione in particolare in campo fiscale e di sicurezza sociale, riguardante il lavoro transfrontaliero dal momento che, anche tra i paesi facenti parte l’UE, manca una definizione uniforme del lavoro frontaliero. Se ancora oggi dunque la posizione del lavoratore frontaliero di presenta giuridicamente complessa, si consideri che la Svizzera, estranea alle politiche e ai tentativi di sintesi e accordi tra stati della UE, accoglie bel oltre la metà dei lavoratori frontalieri presenti in Europa (circa 320.000 persone; Cfr. fonte). Secondo l’ultimo rilevamento statistico riportato sul sito governativo della Confederazione elvetica, nel 2017 i lavoratori frontalieri italiani in Svizzera erano oltre 73.000 (nel 1995 erano circa 36.000). Spesso quella di affrontare il frontalierato è stato, nel corso della storia, un’alternativa ad una scelta di emigrazione per lavoratori impiegati soprattutto nei cantieri edili e nell’industria; oggi però i lavoratori italiani sono occupati in tutti i settori dell’economia elvetica e sono spesso professionisti specializzati. In modo tanto scontato quanto inevitabile la forte presenza, soprattutto in certe aree, di lavoratori frontalieri pur necessari all’economia e allo sviluppo dell’economia terziaria rivolta all’innovazione della nazione ospitante, ha originato un aspro malcontento alimentando la retorica xenofoba dei partiti populisti locali. “Il frontaliere è un capro espiatorio ideale: è presente in Svizzera senza esserlo davvero e si fatica a inquadrarlo concretamente”, spiega Claudio Bolzman, professore dell’Alta scuola di lavoro sociale di Ginevra (cfr. fonte). Fu in questo clima politico che, mentre in Europa si cercava di abbattere i muri e le frontiere tra le nazioni, il referendum Svizzero del 9 febbraio 2014 decise di limitare la libera circolazione dei cittadini europei oltre i confini nazionali. Se questa è, attualmente, la condizione che si trovano ad affrontare lavoratori, anche di alta specializzazione e pur integrati nel tessuto sociale e lavorativo svizzero, è facile immaginare quali dovessero essere le condizioni di lavoro e sociali di coloro che hanno percorso nei decenni e secoli passati questa stessa via avanti e dietro la linea di confine. La fotografa Cristina Omenetto ha dedicato, nel 1995, un servizio fotografico ad illustrare le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori frontalieri nelle località sulla frontiera tra la Svizzera (CH) e l'Italia (I), Marchirolo (VA), Lamone (vicino a Lugano, CH), Savosa (vicino a Lugano, CH), Ronago (CO). Nata a Milano nel 1842, si è avvicinata alla fotografia negli anni Ottanta dopo diverse esperienze di lavoro e studio all’estero appassionandosi prevalentemente ai temi dell’indagine sociale e all’estetica del ritratto e del paesaggio rispetto al quale manifesta uno stile personalissimo impegnandosi in tecniche sperimentali. Tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 ha pubblicato diversi libri fotografici sulle tematiche dell’immigrazione; ha collaborato con l’Archivio di Etnografia e Storia sociale per il quale realizza diversi progetti fotografici; le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e private.
La fotografia mostra i momenti di riposo dei lavoratori impiegati nell’edificazione dello stabile Suglio dell'UBS di Manno realizzato su oltre 20.000 metri quadrati nella seconda metà degli anni novanta su progetto degli architetti Schneebeli, Amman e Ruchat; inoltre rappresenta gli ambienti a disposizione dei lavoratori, compresi gli spazi del sindacato. L’operato dei sindacati a tutela dei lavoratori frontalieri, diversamente inquadrati per regime sociale, fiscale e di accesso al mercato del lavoro rispetto ai cittadini del paese in cui operano è particolarmente importante e complesso. Il 22 dicembre del 2020 è stato firmato il nuovo Accordo sui frontalieri tra la Svizzera e l'Italia (il precedente risaliva al 1974) che andrà ratificato dai parlamenti delle due nazioni e sottoposto a verifica ogni cinque anni. Un tema particolarmente spinoso da affrontare riguardava la doppia imposizione sui redditi transnazionali; nel 2015 era stata già proposto un testo che però era stato fortemente contestato dai comuni italiani e dai sindacati, sulla base di queste riserve l’accordo attuale prevede che la Svizzera trattenga l'80% dell'imposta alla fonte ordinaria prelevata sul reddito dei lavoratori; inoltre viene definito come lavoratore frontaliero colui che abbia la residenza in un comune situato entro i 20 chilometri dal confine e che faccia ritorno quotidianamente al proprio domicilio.