FORMEZ
Scheda organizzazioneCodice meccanografico: 9876543210
Preside: Mark docente Sacco
Sito web: -
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Percorso didattico volto ad esplorare il concetto e la prassi della "Lettura aumentata", possibile grazie alla disponibilità delle ampie risorse presenti in rete e delle fonti autorevoli in banche dati di beni culturali digitalizzati che oggi offrono un ambiente ideale per questa attività. "...Il libro, in quanto oggetto, non è più isolato dal contesto e non ha più la funzione di scrigno e contenitore di parole e idee chiuso in sé. Il libro si è aperto all’esterno e i confini della scrittura hanno varcato la prima e la quarta di copertina per sconfinare in un mondo di relazioni tra loro connesse via web”*
La lettura aumentata è propriamente un’attività creativa e attiva svolta dal lettore che attraverso strade personali si inoltra in percorsi di interpretazione del testo arricchendolo secondo il proprio estro e punto di vista. Gino Roncaglia, uno dei maggiori esperti italiani di cultura digitale in ambito umanistico e forte sostenitore dell’innovazione tecnologica in questo settore, chiarisce il punto in questi termini “[il lettore] può certo percorrere strade di approfondimento o integrazione dei contenuti del testo seguendo suggestioni o rimandi intenzionalmente inseriti a livello autoriale, ma può anche – ed è forse la modalità più frequente– esplorare percorsi e risorse non previste o del tutto ignote ad autore e editore”. In breve: la lettura aumentata è un atto di libertà e personale rivisitazione e arricchimento dell’opera; al tempo stesso però la dotazione di strumenti e mezzi tecnologici può fare sì che questa lettura individuale e arricchita favorisca la socialità intorno al libro. Citando sempre dal medesimo recente articolo di Roncaglia “La lettura aumentata si manifesta dunque oggi non solo attraverso comportamenti di ricerca individuali, ma attraverso la produzione concreta di percorsi e materiali che diventano essi stessi contenuti digitali direttamente e facilmente condivisibili con altri, in maniera assai più facile di quanto non fosse possibile in precedenza. Da questo punto di vista, la lettura aumentata rientra nel più ampio alveo del social reading, e ne rappresenta anzi una delle forme per molti versi più originali e interessanti”.**
*(A.P. Cappello Oltre la pagina. Il futuro del libro è nella lettura “aumentata” in https://www.treccani.it/magazine/atlante/societa/Oltre_la_pagina.html)
**(Roncaglia, G. (2022). Letture aumentate, fra rete e intermedialità. AIB Studi, 61(3), 603–609. https://doi.org/10.2426/aibstudi-13360)
Per un approfondimento a proposito dell'opera manzoniana è possibile consultare il percorso sviluppato all'interno della piattaforma DIGITECA I promessi sposi
"E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna - nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; gramigne, di farinelli, d’avene selvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi insomma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi e porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle loro foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli; là una zucca selvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avvitacchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravano giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendono l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone".
La scena della vigna descritta da Manzoni è famosa per il suo “furore nominalistico”, come se per contrastare una natura scomposta che ha preso il sopravvento fosse necessario ripristinare un ordine almeno nominando eppure questo affollamento di definizioni, descrizioni e nomi finisce per aumentare il senso di ansia e disordine. Si potrebbe descrivere piattamente il brano dicendo che si tratta solo dell’illustrazione di una trentina di piante cresciute spontaneamente nell’angolo di un giardino eppure la tensione espressa da questa descrizione è altissima e si traduce in un forte impatto emotivo alla lettura.
Scopriamo inoltre in questo breve passo, che manca nella precedente stesura di Fermo e Lucia, un talento virtuosistico di Manzoni nella descrizione botanica. L’autore era infatti un appassionato giardiniere, dal pari suo aveva studiato (ma anche messo in pratica nella tenuta di Brusuglio) molti testi e manuali pratici di giardinaggio di autori francesi, fino alle opere di Linneo e questo suo spiccato interesse era alimentato dall’amicizia e dalla corrispondenza con l’illuminista francese Claude Fauriel.
Nel corso dei secoli, attraverso il Medioevo e il Rinascimento, erano stati gli erbari a trasmettere le conoscenze di base e le prime illustrazioni di quella che sarebbe stata la scienza botanica moderna.
L'erbario è "un libro, in uso dall'Antichità classica fino agli ultimi decenni del sec. 15°, che raccoglie descrizioni delle piante e delle loro virtù farmacologiche, spesso accompagnate dai nomi con cui ciascuna essenza vegetale era conosciuta nelle varie lingue e da notizie sul loro habitat [...] il testo fu ben presto integrato anche con le raffigurazioni [...e] soprattutto a partire dal sec. 11° alle immagini delle piante vennero spesso associate anche figure umane, con la finalità di esplicitarne più chiaramente le virtù officinali o per esemplificare particolari metodi di raccolta […]" (da Enciclopedia dell'arte medievale Treccani; cfr. anche https://mostre.cab.unipd.it/illustrazione-botanica/it/6/breve-storia-degli-erbari-figurati#:~:text=L'erbario%20pu%C3%B2%20essere%20definito,agli%20ultimi%20decenni%20del%20sec.).
Il più famoso testo di botanica medica è quello di Dioscoride, medico greco morto nel 54 d.C.; molto probabilmente originariamente il testo non prevedeva un apparato illustrativo ma presto nei manoscritti vennero aggiunte delle immagini che illustrassero le piante e le loro virtù farmacologiche. Queste immagini però andarono incontro ad una codificazione che finì per renderle nei secoli assolutamente non realistiche. Nel Medioevo si trasmetteva dunque un sapere medico-botanico cristallizzato alle conoscenze antiche in un misto di credenza e magia che non veniva messo in discussione.
L'arrivo delle conoscenze trasmesse dalla medicina araba, soprattutto per tramite dell'università di Salerno, favorì nel Trecento un ripensamento dell'illustrazione, in una direzione più realistica, e dei contenuti dei trattati di medicina e botanica.
L’Erbario MA 592 della Biblioteca Angelo Mai di Bergamo
“Il codice testimonia l’alta considerazione in cui nel Quattrocento si teneva l’erboristeria, coltivata con interesse scientifico, ed è emanazione della cultura medico-famacologica padovana sviluppatasi nell’Università. La prima parte dell’Erbario, contenente il volgarizzamento del De viribus herbarum di Macer Floridus e un estratto de El libro agregà de Serapion, tratta dei rimedi semplici, 74 piante la cui illustrazione, a penna e acquarello, è inserita in piccole scene che sembrano rifarsi alla tradizione dei Tacuina sanitatis, libri miniati lombardi del XIV secolo con suggerimenti per la salute mediante l’uso di erbe, l’alimentazione corretta, il corretto comportamento. Forse in questa parte l’illustratore aveva davanti immagini più antiche alle quali rifarsi … come testimoniano gli elementi della moda esibita, che non corrisponde a quella in voga nell’anno di esecuzione.
La seconda parte del codice riporta grandi disegni di 152 piante, raffigurate con maggiore o minore realismo a seconda della possibilità di una conoscenza diretta da parte del pittore. Si spiega così che le piante montane, come ad esempio la genestrela piçola (primula, f. 47r), il ciclamen (ciclamino, f. 48r), la pulmonaria (polmonaria, f. 48v), la trinitas (erba trinità, f. 108r) e l’eleborus niger (elleboro nero, f. 108v), siano rappresentate con buona aderenza al dato naturale, e talora persino nel loro habitat sullo sfondo di rocce dolomitiche. Altre sono invece riprodotte secondo modelli botanici detti schemata, non naturalistici, in cui le piante sembrano già pressate e pronte per la conservazione in erbario e per lo studio teorico delle loro parti.
L’importanza per la storia della botanica e per la storia dell’arte dell’erbario conservato a Bergamo … consiste proprio in questo fatto: nel segnare il lento distaccarsi, nella raffigurazione delle piante, dallo schematismo simbolico e astratto medievale, rinnovando l’attenzione per il dato naturale già presente nella cultura tardogotica … con una più appropriata concezione dello spazio e delle forme, desiderata dall’incipiente gusto rinascimentale. La riflessione maturata in ambito universitario sulle virtù terapeutiche della flora e sull’importanza di sapere riconoscere e descrivere con precisione le piante officinali ebbe modo di esprimersi anche nella volontà di documentarne il vero aspetto attraverso l’immagine dipinta in modo obiettivo ed esatto, possibilmente dal vero.
In linea con l’impostazione dell’Università di Padova, il testo cita spesso autori arabi: il medico Abu Maser al Muchtar ibn Botlan, di Malaga (XI sec.), convertitosi al Cristianesimo e quindi molto celebre in Occidente; il geografo al-Idris e infine il più grande medico arabo, Abdallah ibn Ahmad (XIII sec.), cui si deve l’inventario generale e ufficiale della materia medica (farmacologia, erbe, rimedi semplici)” [testo da: https://www.bibliotecamai.org/iorestoacasa-erbario-guarnerino/].
Nel Rinascimento fiorisce una nuova tradizione più naturalistica e arricchita da indagini scientifiche, soprattutto in area Veneta in relazione all'ambiente accademico patavino. Con la diffusione della stampa anche l'apparato illustrativo gode di una giusta importanza anche in questo campo.
Nel Seicento la Botanica inizia ad affermarsi infine come scienza autonoma e non solo come ausilio della medicina.
Pietro Andrea Mattioli si laureò in medicina a Padova nel 1523 e divenne uno dei botanici più celebri del Rinascimento. Esercitò dapprima a Roma ma, dopo il sacco dei Lanzichenecchi, si trasferì in Val di Non e poi a Gorizia continuando il suo lavoro di traduzione e studio dell’opera del medico greco Dioscoride. Nel 1544 diede alla luce il suo immane lavoro di traduzione e di commento a quell’opera nei suoi Commentarii aggiornando il De materia medica alle conoscenze medico-botaniche contemporanee: aggiunse molte specie di piante a quelle conosciute da Dioscoride raddoppiando il numero delle specie descritte (oltre 1200), tra cui il pomodoro ad esempio che Mattioli pare per primo abbia indicato come varietà commestibile e altre specie recentemente importate dalle Americhe e dall’Oriente. Anche se proprio l’università in cui Mattioli si era laureato riservò a quest’opera l’accoglienza meno calda, il giardino botanico della città riportava per ogni essenza il riferimento alla pagina dell’edizione del 1568 dei Commentarii.
Alla prima edizione, senza illustrazioni, ne seguirono altre con apparato illustrativo che fecero dei suoi Commentarii il più importante testo botanico-farmaceutico del XVI secolo: una summa di medicina naturale, tradizione medica accademica, medicina popolare… Anche le immagini a corredo del testo disegnate da Giorgio Liberale da Udine e incise dal Wolfgang Meyerpeck ebbero grandissima importanza dal punto di vista scientifico.
Ritiratosi nel 1571 a vita privata, dopo essere stato il medico personale degli imperatori d’Asburgo Ferdinando I e Massimiliano II, egli si dedicò a curare l’edizioni della sua opera maggiore e a redigere un Compendium de plantis.
Questo magnifico brano è stato scelto come esempio, anzi come l’Esempio per eccellenza, della forza espressiva della punteggiatura da un autore e saggista, Leonardo Luccone, che con il suo Questione di virgole ci ha regalato un moderno e godibilissimo trattato sulla punteggiatura. Tre pagine di questo saggio sono dedicate all’analisi del passo della “vigna di Renzo” introdotto da queste parole “Ecco, il mio libro potrebbe concludersi con questa frase: “Studiatevi la punteggiatura di Manzoni”. Anzi, basta questo passo. C’è tutto quello che si deve sapere sull’interpunzione: l’aspetto logico e organizzativo,e un uso maturo, perfino virtuoso, delle virgole e dei punti e virgola […] In ogni caso […] la punteggiatura corretta è invisibile. Non ci si accorge nemmeno che tutto sta filando liscio. E poi c’è l’ultima frase, eh! “Il rovo era per tutto”, punto e virgola, elenco di verbi, punto e virgola, congiunzione. Sono sicuro che vi starete chiedendo: “Ma si può fare?”. Sì! La punteggiatura è espressività. La vostra punteggiatura siete voi” (Questione di virgole / L. Luccone.- Roma-Bari : Laterza, 2018; pp. 9-10).
Dunque ancora un saggista e celebre divulgatore di questioni inerenti alla linguistica torna a sottolineare l’importanza di studiare Manzoni. Questo autore infatti, al di là della sua identificazione come patriota e simbolo di identità nazionale, è stato un profondo indagatore teorico e un grande scrittore che ha saputo plasmare la lingua italiana con grandissima maestria. Con lui, e pochi tra i suoi contemporanei, si conclude un dibattito durato secoli e inaugurato da Dante stesso con il suo De vulgari eloquentia a proposito di quale dovesse essere la lingua italiana sovraregionale destinata ad imporsi come lingua letteraria al pari del latino.
Nel 1525 la pubblicazione delle Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua di Pietro Bembo segnarono una tappa importante nella questione linguistica che si dibatteva dai tempi di Dante: Quale avrebbe dovuto essere il “volgare” che avrebbe meritato di rappresentare la lingua letteraria per gli italiani? L’invenzione e la rapida diffusione della stampa imponevano una risposta celere a questa domanda e Bembo, collaboratore dell’editore veneziano Manuzio, propose la sua. Il riferimento ideale doveva andare per la prosa alle pagine di Boccaccio; per la poesia il modello avrebbe invece dovuto essere l’arte di Petrarca. Lo sperimentalismo di Dante veniva dunque ritenuto eccessivo per permettere alle sue opere di entrare in questo canone.
Dolce fu uno scrittore prolifico in moltissimi generi letterari, scrisse in versi, prosa, scrisse dialoghi, trattati scientifici o sull’arte… diede il suo personale contributo sulla dibattuta questione della lingua riprendendo la soluzione proposta da Bembo per iscriverla in una schematizzazione rigida che, nella sua concezione, avrebbe dovuto rendere accessibili le norme proposte dalle Prose della volgar lingua ad un pubblico più ampio a cui offrì dunque nel 1550 le sue Osservationi in quattro libri.
Figlio del celebre architetto, Francesco Sansovino divenne prolifico autore ma fin da giovanissimo si appassionò a questioni linguistiche divenendo, quale seguace delle teorie bembiane, grammatico e lessicografo; un’opera in particolare gli era cara e lo si intuisce anche dal valore affettivo della dedica del 1568 dell’Ortografia al figlio rivolgendoglisi come maestro per insegnargli le buone norme e i vocaboli “de’ buoni antichi Toscani”.